L’Erasmus come un rito di iniziazione per l’età adulta

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In lituano si dice alus, in ceco pivo. Per il resto — una volta messo a fuoco che in spagnolo si dice cerveza e in portoghese cerveja — la parola birra ha un suono simile in mezza Europa. Vodka, tequila, gin e quasi tutti cocktail non hanno nemmeno bisogno di traduzione. Il vino, semmai, richiede uno sforzo in più col dizionario e soprattutto col portafogli. Ma tra la generazione Erasmus e un bicchiere (anzi, più di uno) non c’è ostacolo che tenga: il soggiorno di studi all’estero si rivela anche l’occasione per una maggiore familiarità con l’alcol. Salvo rientrare nei ranghi una volta tornati a casa.

Non c’è sorpresa né scandalo nei risultati della meticolosa e lunga ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano. Per un paio d’anni la Facoltà di psicologia ha monitorato i «comportamenti legati alla salute» di oltre 900 studenti Erasmus provenienti da 42 Paesi europei. E dal racconto degli stessi ragazzi emerge che, mentre non cambiano l’alimentazione, la cura dell’igiene personale e altre abitudini, l’unica vera discontinuità riguarda il rapporto con l’alcol. Bevono più di prima, ma una volta tornati nel proprio Paese recuperano lo stile di vita abituale. Anzi, in molti casi il consumo di alcol tende persino ad abbassarsi rispetto alla vita pre-Erasmus. La spiegazione dei ricercatori? Il programma di studi all’estero rappresenta «un marcatore dello sviluppo», cioè un’occasione per fare esperienze, anche trasgressive, prima del passaggio all’età e alla vita adulta, con il suo fardello di responsabilità.

Così, per esempio, soltanto il 10 per cento degli studenti dichiara di essersi ubriacato più di tre volte in un mese prima di partire, mentre durante il periodi all’estero è capitato quasi al 30 per cento degli interpellati. Ma al ritorno in patria al 70 per cento dei ragazzi capita di non sbronzarsi «mai», a poco più del 20 per cento succede una o due volte in un mese e soltanto il 7 per cento esagera ad alzare il gomito per tre volte al mese o anche di più. E la stessa tendenza si manifesta a proposito del numero di drink settimanali.

«Per i ragazzi questo è il vero rito di passaggio — spiega la professoressa Elena Marta, che ha diretto la ricerca — un ragazzo si trova da solo, in un altro Paese, per realizzare un suo progetto che è anche un investimento per il suo futuro, e di quel momento vuole prendere tutto, il massimo, compresi gli aspetti ludici».

Insomma, non è una vacanza, perché i risultati ci sono, i docenti osservano nei ragazzi Erasmus «la grande capacità di tenere insieme e valorizzare tutte le variegate conoscenze ed esperienze acquisite durante il soggiorno all’estero». Ma c’è la consapevolezza che dopo si dovranno fare i conti con la realtà. E allora, complici le infinite occasioni di socialità tra coetanei espatriati, tanto vale spingere sull’acceleratore. E forse un giorno, da genitore o nonno, qualcuno si farà ogni tanto un bicchiere: non per dimenticare ma per ricordare i bei tempi dell’Erasmus.

Fonte: Corriere della Sera

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